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I resoconti della Traslazione di San Nicola di fr. Gerardo Cioffari o.p.




La traslazione delle reliquie di s. Nicola da Mira a Bari (1087) rappresenta uno dei momenti più significativi della storia di Bari.
In un certo senso e l'avvenimento che più d'ogni altro fa uscire questa città da un ambito provinciale per acquistare una relativa notorietà sul piano internazionale.
Esso si innestò in un periodo particolarmente felice dell'evoluzione della città. Già da un secolo Bari era divenuta sede del Governatore (Catapano) bizantino per l'Italia meridionale, ma nel 1071, dopo un assedio di tre anni, fu conquistata dal Normanni, i quali però le lasciarono le precedenti autonomie e privilegi commerciali. Se a questo aggiungiamo l'esempio offerto proprio in quegli anni dai Genovesi, Veneziani, Amalfitani e specialmente i Pisani, nel rintuzzare l'invadenza araba con frequenti incursioni armate, allora comprenderemo bene come sorgesse spontaneo il desiderio di non essere da meno e di compiere un'impresa spettacolare che sollevasse il prestigio della città. 
S. Nicola era già da tempo conosciuto sia in Oriente che in Occidente. La sua biografia, particolarmente scarna, era arricchita dal Metafraste (fine X secolo) con elementi che si rapportavano ad un S. Nicola, monaco e vescovo di Mira, vissuto nel VI secolo. È da considerarsi comunque un enigma della storia come un uomo quale s. Nicola (III-IV secolo), pressoché sconosciuto ai suoi contemporanei, sia poi diventato a giudizio unanime degli storici, il Santo più venerato del medioevo.
Detto questo è però necessario procedere ad una doverosa precisazione storica. Sei il dubbio è calato legittimamente su molti dati biografici del santo, non altrettanto si può dire della traslazione, la quale è corroborata da una formidabile documentazione, notevole sia come quantità che come qualità. Il fatto più curioso è che a Bari, città ove le principali fonti sono sorte, non si conosceva alcun documento narrativo (se si eccettua la pergamena con i nomi dei 62 marinai e quella relativa a Leone Pilillo) mentre in tutta l'Europa si trovano numerosi documenti antichi che riferiscono gli avvenimenti del 1087, oltre alle moltissime cronache che ne riportano la notizia.
Non essendo questa una sede filologica né bibliografica, mi limiterò a dare notizia delle matrici principali a cui possiamo ricondurre le parecchie decine di manoscritti esistenti attualmente.
L'autore più originale e al quale in un modo o nell'altro, tutti gli altri fanno riferimento e Niceforo, probabilmente un monaco benedettino. Egli estese la relazione degli avvenimenti per incarico di Curcorio di notabili della città, E di alcuni "Sanctorum ecclesiarum rectores". Non essendoci pervenuto il resoconto uscito dalla sua penna e al momento attuale è difficile determinare quale codice sia il più vicino ad esso se quello Beneventano o quello Vaticano. Il primo, che rispetto al secondo offre un maggior numero di dettagli, fu pubblicato dal Putignani nella sua Historia della vita… di San Nicolò, Napoli 1771, pp. 551-568 Sulla base di un manoscritto del XII secolo conservato nella biblioteca capitolare di Benevento. Il codice Vaticano latino 6074, pure del XII secolo fu pubblicato dal Falcone e nella sua opera Sancti Nicolai acta primigenia, Napoli 1751, pp. 131-139.
Di qualche mese posteriore poi la relazione che scrisse Giovanni Arcidiacono, (personaggio molto noto a differenza di Niceforo) nella storia barese del tempo, su incarico dell'arcivescovo Ursone, nel corso dell'anno 1088. Tale incarico potrebbe svelare già di per sé una tensione esistente tra  curia arcivescovile e la borghesia cittadina. Codice base può essere considerata il Vat. Reg. Lat. 477, Fall 29 38, del secolo XII. La sua narrazione fu conosciuta dapprima in compendio attraverso Vincenzo Belluacense, Speculum Historiale, lib. 25, c. 83 e Orderico Vitale (1140 c.) Historia ecclesiastica, pars. III, lib. VII (PL, 188, 535-539) e poi pubblicata integralmente dal Surius in De probatis sanctorum Historia, III, Coloniae Agrippinae, 1579, 1581, 1618 (pp.116-121). Da quest'ultima edizione ripubblicò il Putignani, Vindiciae vitae... Diatriba II, Napoli, 1757, pp. 217-252.
Pur dipendenti da Niceforo, altri autori meritano di essere menzionati, e precisamente l'Anonimo francese, l'Anonimo russo, l'Animo greco. Definita già dal Praga come "leggenda gerosolimitana" la narrazione dell'Anonimo francese, nonostante il proemio (in cui si fa espressamente il nome di Niceforo), è impostata molto diversamente sia dal Niceforo beneventano che da quello vaticano. Ad esempio egli fa frequente uso delle sue conoscenze sulla vita di S. Nicola. Il codice Gandav. 289, già St. G. 662 (pp.219-261) fu pubblicato dai Bollandisti. Vedi Analecta Bollandiana, IV, 1885, pp.169-192.
L'Anonimo russo, probabilmente un monaco cronista di Pecerskaja Lavra di Kiev, dovette avere sotto gli occhi (tutta o in parte?) la narrazione di Niceforo ma non gli mancarono altre fonti orali. Il suo resoconto ("Leggenda di Kiev"), scritto intorno al 1110 offre una prospettiva profondamente religiosa (elimina i contrasti fra i cristiani, che divengono così docili strumenti nelle mani della provvidenza) ed ha una portata ecumenica eccezionale. Il codice più antico è il cod. Sacharov, del XIII-XIV secolo, che si conserva nella Biblioteca Akademii Nauk di Leningrado. Archeogr. kom. 163 (già 312).
L'Anonimo greco è indubbiamente più vicino a Niceforo, tanto che qualcuno lo designa come "Niceforo greco". Fu pubblicato dall'Anrich nel suo Hagios Nikolaos, I, Leipzig-Berlin 1913, pp. 435-499 sulla base dei codici Cryptensis Gr. B.  IV, sec. XIV e Ottoboniano Vaticano 393, sec. XIII-XVI.
Per maggiore concisione usiamo le seeguenti abbreviazioni: Nic.B e Nic.V per Niceforo beneventano e Niceforo Vaticano: Gv. Arc. per Giovanni Arcidiacono; An.Fr, An.R, An.G. rispettivamente per Anonimo francese, Anonimo russo, Anonimo greco.
E veniamo agli avvenimenti che ebbero luogo tra il marzo e il maggio 1087.
L'An.R. è l'unico degli autori che menziona gli antefatti. S. Nicola apparve ad un "sacerdote devoto", esortandolo a convocare gli uomini più autorevoli, ecclesiastici e laici, della città, affinché si impegnassero a trafugare le sue reliquie dalla Licia desolata a Bari. Il giorno dopo i membri dell'assemblea "designarono degli uomini stimati e timorati di Dio, i quali con tre navi sarebbero dovuti andare a prendere il Santo. Questi, pertanto, avendo fatto carico di frumento e fingendo di andare in missione commerciale, salparono".
Gv. Arc. e l'An.Fr. riferiscono che già durante il viaggio di andata verso Antiochia, lungo le coste della Licia, i baresi fecero esplorare la zona ad un membro della spedizione, il quale, al ritorno, riferì che a Mira erano affluiti molti Turchi, per un funerale di un loro capo. Non volendo tentare uno scontro armato i Baresi continuarono il viaggio per Antiochia, ove avrebbero svolto una certa attività commerciale. Tutte le fonti summenzionate riportarono l'episodio secondo il quale i Baresi, vennero a sapere dell'analoga intenzione dei Veneziani di impadronirsi della ossa di S. Nicola. Affrettate, perciò, le operazioni commerciali e arricchito il loro equipaggio di altri due membri, un greco e un francese (Nic.V e An.Fr.) che avrebbero dovuto essere interprete ed esploratore, puntarono su Mira. Nel porto di Andriaco parte di loro restò a guardia delle navi e 47 sbarcarono.
Nascoste le armi, entrarono con aria di pellegrini nella basilica del Santo a Mira, ove trovarono quattro monaci (in Gv. Arc. tre) Questi in un primo momento stavano per indicare la tomba di S. Nicola, poi si insospettirono e uno di loro tentò di correre a dare l'allarme. I Baresi però non si lasciarono prendere alla sprovvista. Lo bloccarono e misero alcuni a guardia delle entrate. Si creò così un'atmosfera drammatica (omessa solo in An.R.) che i Baresi non riuscirono a dissipare nonostante mostrassero tutte le buone intenzioni che li avevano spinti all'impresa. Ma non c'era tempo. Due giovani audaci, il barese Matteo e il francese Alessandro (questo solo in An.Fr) puntarono la spada alla gola dei monaci, che impauriti indicarono la tomba. Rotto ogni indugio lo stesso Matteo con una spranga di ferro frantumò la lastra tombale, si calò dentro l'acqua (manna) profumata ed estrasse il cranio e le altre ossa più grandi. Le avvolse in una tunica e le consegnò ai due sacerdoti, Lupo e Grimoaldo. Processionalmente e con gioiosi canti sommessi tornarono alle navi. Intanto i monaci, ormai liberi da minacce, avevano dato l'allarme e i Baresi fecero appena in tempo ad allontanarsi fra il pianto e le grida dei Miresi.
Le tappe del viaggio, del tutto omesse dall'An.R.
e solo parzialmente menzionate (Caccavo, Magesta e Macrì) da Gv.Arc, sono dettagliatamente indicate da Niceforo (da cui dipendono An.Fr. e An.Gr.): l'isola di Caccavo, l'isola di Magesta, la città di Patara, l'insenatura di Perdicca, ove si rifugiarono a causa di una violenta tempesta, che si sedò solo quando ognuno riportò nella botticella le reliquie che aveva trafugato. Gv.Arc. e l'An.Fr riferiscono questo episodio come avvenuto a Macrì e a seguito del sogno di Eustasio.
Dopo una sosta all'isola di Marciano, oltrepassato il golfo di Trachea (ove s. Nicola apparve in sogno a Disigio, rassicurandolo che in venti giorni di viaggio sarebbero giunti a destinazione) giunsero all'isola di Ceresano, e quindi all'isola di Milo (omessa da Nic.B), ove avvenne il romantico episodio dell'uccellino che volteggiò e cinguettando si posò sulla botticella. Dopo Stafnu (lat. Bonapolla), i marinai toccarono Geraca, Monovasia, Methone, Sichea e finalmente giunsero nel porto di S. Giorgio, a quattro miglia da Bari, ove prepararono il solenne e festoso ingresso, che ebbe luogo el tardo pomeriggio della domenica del 9 maggio.  
Già prima di sbarcare però i marinai si trovarono in difficoltà di decidere a chi consegnare le reliquie. Quando la festa rischiava di finire in rissa si fece avanti l'abate di S. Benedetto, Elia, il quale salito sulla nave su cui si trovava il corpo di S. Nicola si offrì di custodire le reliquie nel suo monastero fino al momento in cui, secondo il volere dei marinai, non fosse costruita la chiesa in onore del Santo.
Giunse intanto da Trani (Nic.B, Nic.V, An. Gr. hanno Canosa) l'arcivescovo Ursone, il quale fece intendere di volere le reliquie nella Cattedrale. Rifiutandosi i marinai, egli mandò la sua scorta armata a prenderle con la forza. Ne scoppiò un tumulto in cui morirono due giovani e si ebbero numerosi feriti. Alla fine l'arcivescovo accondiscese al desiderio dei marinai e della maggioranza della popolazione e diede il suo assenso alla costruzione di una grande chiesa nella corte del Catapano. Incaricò quindi lo stesso Elia a gestire i lavori. Questi con l'aiuto di esperti, meno di due mesi dopo si metteva all'opera. Scortate da un imponente stuolo di soldati le reliquie furono trasferite nella chiesa di s. Eustrazio (in Gv.Arc. si ha s. Stefano), all'interno della mura della cittadella del Catapano, ove sarebbero state più sicure. Furono quindi abbattute alcune chiesette della corte del Catapano e si diede inizio alla magnifica e grandiosa Basilica che, ancora oggi, si impone all'ammirazione dei visitatori d'ogni parte del mondo.


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