Recensione del film "Delivery" di Nikos Panayotopoulos [di Carlo Coppola]
Un autobus arriva al capolinea, la stazione è quella di Atene. Un ragazzo scende dall’autobus e si aggira senza meta per le strade della città, di lui non sappiamo nulla potrebbe essere un immigrato o semplicemente un turista. Nikos Panayotopoulos, già premiato nel 1978 a Locarno col Pardo d’oro per il lungometraggio I tembelides tis eforis kiladas, portò alla Mostra del Cinema di Venezia, un’opera complessa dal titolo carico di aspettative, Delivery.
Protagonista è Thanos Samaras che domina la pellicola dall'inizio alla fine, con una fortissima presenza fisica, un volto realmente espressivo, che riesce a contenere, di volta in volta, candore, gioia, disperazione.
La sua faccia sporcata dalla barba incolta e dalla precarietà del suo vivere alla ventura, lascia aperto fino alla fine, senza risolverlo, il problema della sua identità, eppure alla poetica di Nikos Panayotopoulos. non interessa dare una connotazione al suo protagonista, che ha la provvisorietà di un vagabondo, il tentativo di radicamento di un immigrato, ma soprattutto lo sguardo puro di un turista, che sperimenta gli accadimenti della vita senza le passioni negative di chi voglia effettivamente viverla.
A svelare l’arcano è solo lo stesso regista, in un dibattito pubblico, riconoscendo al giovane protagonista, di cui mai si dirà il nome per tutto il film, quel valore effimero di una bellezza non contaminata dal desiderio negativo, che è di per se stessa affidata alla scoperta della vita giorno per giorno, momento per momento.A svelare l’arcano è solo lo stesso regista, in un dibattito pubblico, riconoscendo al giovane protagonista, di cui mai si dirà il nome per tutto il film, quel valore effimero di una bellezza non contaminata dal desiderio negativo, che è di per se stessa affidata alla scoperta della vita giorno per giorno, momento per momento.A svelare l’arcano è solo lo stesso regista, in un dibattito pubblico, riconoscendo al giovane protagonista, di cui mai si dirà il nome per tutto il film, quel valore effimero di una bellezza non contaminata dal desiderio negativo, che è di per se stessa affidata alla scoperta della vita giorno per giorno, momento per momento. Si tratta di un film asciutto, oscillante tra uno stile neorealistico e una visione documentaristica del fare cinema. Entrambi gli elementi connotativi sono espressi chiaramente con tagli di particolare efficacia. Il suo ispiratore è stato Bresson, ha precisato il regista, e la narrazione, pur nell'apparente crudo realismo, vuole avere un'impronta onirica, e per questo non appare del tutto fuori luogo un finale surreale, che rimanda indietro la memoria a Miracolo a Milano, con il protagonista che si solleva nell'aria e vede il mondo dall'alto. Ma se nel capolavoro di De Sica quel volo significava la catarsi dai mali concreti e terreni, il volo di Delivery è più simile a quelli indimenticabili della bicicletta di E.T., o dei palloncini a forma di pesce cari ad Emir Kusturica.Il realismo è, infatti, di per se smorzato dagli sguardi documentaristici con cui si descrive il viaggio tra gli emarginati di ogni tipo, spesso quelli che ci danno più fastidio quando capita di trovarli per strada, peggiori anche dei personaggi felliniani a cui vorrebbero assomigliare, perché cattivi e senza nessuna possibilità di redenzione se non nel sogno.
Certo è che nel grigiore e nell'abbandono del mondo che rappresenta per il sessantaduenne regista greco un livello di indagine soggettiva, e dunque priva del livello socio-etno-antropologico del neorealismo di marca italiana, un ruolo importante lo giocano proprio gli sguardi e i silenzi del protagonista, senza quasi una battuta da poter pronunciare. Ancora più forte e carnale appare dunque la sua passione per la giovane collega di lavoro in pizzeria e tossicodipendente, interpretata da un’ottima Alexia Kaltsiki, che avvolta in un completino rosso, di pelle, avrà con lui un breve rapporto, tappa fondamentale di quella progressiva ed inevitabile perdita di fiducia verso l’umanità a cui più volte il protagonista sembra volersi sottrarre. È questa l’unica passione a cui il giovane vorrà indulgere, sempre chiuso nel suo perenne mutismo, ed è questo momento a svelare l’idea che si tratti di un intreccio picaresco, a cui sottende la sua formazione ed il suo progressivo immergersi in una volontà di autodistruzione totale.
Anche la scelta di come entrare nel tunnel di autodistruzione va in quella direzione. Infatti, perso il lavoro alla pizzeria, proprio il primo euro ricevuto in elemosina ad un semaforo gli farà scattare l’improvvisa rivolta, spingendolo ad uccidere spietatamente, proprio chi quell’euro gli aveva dato, ma lo farà, sottolinea Nikos Panayotopoulos, solo per impugnare e dare una radicale svolta al proprio destino.
Il racconto così come condotto da Nikos Panayotopoulos, appare assolutamente logico e privo di incongruenze o di aporie ed è disegnato dalla fotografia Costis Gikas, che si mostra splendidamente sobria nelle scene notturne in cui si sottolinea il rapporto esistente tra dimensione privata e tensione all’esterno del protagonista, e che raggiunge i più alti effetti drammaturgici nelle splendide immagini di un’inedita Atene notturna, lontanissima da quella del Partenone, ma che è vista da una motocicletta sulla quale una donna rischia di morire di overdose.È proprio questo andare verso la morte, prima solo sfiorata, e poi toccata più volte durante il racconto filmico a determinare un destino che la evoca non come sollievo, o liberazione – Delivery appunto – ma come esperienza altra, da esplorare col suo carico di miracolosità.È proprio questo andare verso la morte, prima solo sfiorata, e poi toccata più volte durante il racconto filmico a determinare un destino che la evoca non come sollievo, o liberazione – Delivery appunto – ma come esperienza altra, da esplorare col suo carico di miracolosità.È proprio questo andare verso la morte, prima solo sfiorata, e poi toccata più volte durante il racconto filmico a determinare un destino che la evoca non come sollievo, o liberazione – Delivery appunto – ma come esperienza altra, da esplorare col suo carico di miracolosità.
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