Da Bari un Ricordo di Jivan Gasparyan di Carlo Coppola
Correva l'anno 2005 e nel festival "Le Voci dell'Anima" giunto alla seconda edizione, organizzato da Princigalli Produzioni in cui si esibirono tanti artisti d'eccezione. Si iniziò il 5 dicembre Jan Garbarek & L’Hilliard Ensemble Officium, proseguendo il 9 dicembre con Franco De Grassi, il 10 dicembre con Houria Aichi (canto sacro dall'Algeria), il 13 dicembre con Noa Acoustic Band & Solis String Quartet, il 14 dicembre con Ludovico Einaudi e Mercan Dédé, il 16 dicembre con Coro del Patriarcato Russo Peresvet, il 18 dicembre fu il turno del mistico Giovanni Lindo Ferretti & Gianluca Petrella, 19 dicembre: Giovanni Lindo Ferretti & Paolo Fresu, 20 dicembre: Djivan Gasparyan, 21 dicembre infine si esibì l'Ensemble Palazzo Incantato. Allora il nome di Gasparyan i giornali italiani lo scrivevano Djivan.
Fu per me uno degli incontri diretti e primordiali con la cultura armena. Gasparyan è stato il primo armeno che io abbia mai conosciuto dal vivo dopo il mio amico Rupen Timurian. Rupen lo avevo conosciuto poco tempo prima, pochissimo a dire il vero, credo qualche settimana. Tutti i concerti si svolgevano in alcune chiese della città di Bari, in quartieri considerati periferici. Il concerto di Gasparyan si svolse presso la Parrocchia Mater Ecclesiae. Non mi occupavo ancora quotidianamente della cultura armena come se non ci fosse un domani, come se non avessi altro scopo nella vita. Avevo appena finito di frequentare CIRCUS – SCUOLA ELEMENTARE DI CINEMA organizzata da Fandango e Scuola Holden a Bari e come stage finale con i miei colleghi avemmo il compito di seguire e filmare la rassegna. Intervistai Gasparyan, così come avevo già fatto con il compositore Pasquale Catalano e con Paolo Fresu. L'intervista con il maestro armeno fu surreale. Era egli accompagnato da una traduttrice che non parlava armeno, o che certamente con lui comunicava in Russo. La signora tra i cinquanta e i sessanta, più larga che alta, sembrava venuta fuori da una narrazione di Tonino Guerra, aveva qualcosa di sovieticamente decadente, aveva l'afrore di una colonia estiva, un insieme di statalistico e di rubicondo che non poco mi inquietava. Antipatica a pelle, mi contestò tutte le domande. Era una post-comunista sovietica ne sono certo. Mal tollero i comunisti, in specie se sovietici, ma i post, davvero non li posso soffrire e quella donna ne aveva tutte le caratteristiche fisiche e fisionomiche. Credo che a pelle l'affinità elettiva fosse reciproca. Allora la musica armena la ascoltavo molto più di adesso, perché mia moglie non sopporta le "lagne tradizionali". Di musica popolare armena, su tutte, allora ne facevano grandi abbuffate e avevo tanti CD, perché Spotify o Youtube erano nella pratica dell'ascolto ancora al di là da venire. In particolare il duduk mi metteva in una condizione di meditazione naturale e quiete interiore, riconciliandomi con "Spirto guerrier ch'entro mi rugge", e che oggi è talmente sopito da dubitarne ancora dell'esistenza. Non ricordo cosa mi disse Gasparyan, forse nulla, non ricordo neppure se gli strinsi la mano. Ricordo che parlava poco le sue risposte erano brevi. Lui comunica attraverso quel suo suono irripetibile e forse divenuto nell'uso troppo commercialmente abusato.
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