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L'attualità in Gian Pietro Lucini

di Salvo Jethro Brifa 


opera del pittore Piero Fabris
Gian Pietro Lucini leggeva "veramente tutti i libri che gli inviavano o quelli che catturavano la sua attenzione" (Viazzi). Le sue considerazioni erano frutto di attenta analisi della follia di un'epoca che si stava accartocciando su se stessa (De Maria); le sue erano righe di critica onesta e non di compiacimento. 
Un uomo sincero che ha pagato i suoi articoli di critica con una sorta di emarginazione.
Era intollerante verso tutto ciò che è sovrastruttura, ipocrisia intellettuale, rito svuotato.
Non amava la monarchia, non amava la chiesa, era antiborghese.
Un polemista di alto rango, attento a ogni novità, alla quale si avvicinava senza alcun tipo di prevenzione, nell'idea che ogni nuovo volume potesse contenere il seme di novità e fosse soluzione per i bisogni del suo tempo. "Caposcuola dei simbolisti italiani” (definizione di Viazzi), un artista dai mille interessi sempre pronto ad una letteratura dialettica, sensibile alle istanze sociali, perciò annotava con cura, faceva considerazioni, ma sempre con cognizione di causa e non prima di aver rielaborato (cosa diversa da adattamento), semplificato, interpretato, riflettuto. Faceva sarcasmo dalle colonne dei giornali ai quali collaborava, su personaggi, esibizionisti prepotenti, senza etica né radici profonde nella cultura, i quali nulla potevano intendere del monte Parnaso, essendo più simili a pozzanghere sotto i raggi della luna, ovvero miraggi deludenti. Non è un caso che fosse “anti -dannunziano”! Un uomo scomodo specie agli occhi di certi “signori delle cerimonie”, (presenzialisti snob e cultori di facciata dell'arte), sempre pronti a elogiare chi è sotto i riflettori della notorietà. Per codesti “Signori”, un uomo come Gian Pietro Lucini era un “personaggio” dal quale è bene tenersi a distanza, ma con tatto diplomatico, perché uno come lui potrebbe trovarsi improvvisamente alla ribalta e il suo nome essere accanto a quello degli intellettuali molto richiesti nei salotti di grido, Chissà perché tutte le volte sembrava che la sua fama dovesse esplodere improvvisa in quanto artefice di un nuovo novecento poetico e invece rimaneva creditore di celebrità!
Il Lucini era “un ragazzaccio della cultura, uno scapigliato. difficile da domare, contestare, perché il suo patrimonio culturale era solido e le sue posizioni decise ed estreme erano espressione di studio profondo che si espandeva in ogni direzione: un vero anticonformista che preferiva tenersi lontano dagli olezzi di letteratura di bassa lega e fare dell'isolamento una occasione di proficua solitudine. E' stato uno dei maggiori innovatori della poesia italiana! 
Il Malibeo (Così come lo chiamavano) non fu mai asservito agli interessi di pochi. Alla notorietà preferiva l'onestà. 
All'oceano di folla preferiva un nido sulla cima irta e silenziosa, del monte dello scibile vicino al sacro stellato. Bisognò attendere la firma autorevole di Franco Fortini e che Edoardo Sanguineti lo rivalutasse, perché in molti lo prendessero in considerazione. Ebbe vera stima postuma!
Ogni scritto era per lui un' occasione di viaggio, possibilità di scalare con vivacità mentale, con la curiosità tipica dei fanciulli il pensiero di chi vergava, perché si entusiasmava di fronte a idee dal profumo universale, basato su pilastri originali capace di schiudersi a visioni lucide. Quante volte scivolava in “Canti amari” immerso in un'inquietudine indomabile difronte a pagine piene di orpelli usati per nascondere la miseria di certi esseri. Il Lucini era uno spirito irrequieto, anzi uno SPIRITO RIBELLE (che poi è il titolo della sua prima opera narrativa, ovvero un romanzo sociale, con intenzioni veriste). Un pensatore autentico! Una mente colta che ha bisogno di ordinare con distacco freddo e aristocratico sempre alla ricerca di un linguaggio di facile comprensione e di immediata evocazione. Sapiente conoscitore degli stati d'animo che richiama con esperienza iconica al sensorio (Sanguineti). Nella sua polemica, tipica di uno spirito nobile insofferente alla falsità si comprende la capacita dell'intellettuale di cogliere prima degli altri la necessità di forme nuove, espressione della nostalgia per sorgenti d'acqua di alta montagna che siano al contempo capaci di contenere il pensiero ossigenato, anima che risponda alle esigenze di una società in trasformazione. La sua era una ricerca di valore vitale e in tal senso il suo considerare era avanti per i suoi tempi. Facile intuire perché le sue idee erano un disturbo per la borghesia che preferì occultare il burbero intellettuale, farlo passare come un artigiano della cultura di secondo piano, un confusionario che aveva mancato di comprendere a pieno la lezione dei simbolisti francesi, ma lui, invece, compresa la struttura lirica, l'aveva liberata da certi contenuti, sintetizzando un SIMBOLISMO EUROPEO con concetti di puro, libero verso, che non disdegna di mescolare alla ricercatezza linguistica raffinata dell'eloquio alto con quello basso per arrivare a una trasmissione di idee con immediatezza. Qualcuno osò dire che la sua era una poetica rubata, un riadattamento dei SEMIRITMI di Luigi Capuana alla sua poetica del “Verso Libero” (titolo di un suo saggio, grazie al quale lasciava intendere come si dovesse poetare per schiudersi a liriche dal flato cosmico utilizzando quelle innovazioni formali come terminologia di simboli per rappresentare con intensità l'inconsueto del mondo.) Si entusiasmò per il Marinetti e, nelle prime ore del futurismo era forse tra i più felici plaudenti, immaginando che finalmente si fosse aperta una via letteraria scevra da ogni soffocamento strutturale; ci vide all'inizio il soffio di stagioni di freschezza che dessero scena alla purezza del sentire, ma non ci pensò troppo a prenderne le distanze dal movimento futurista, perché non intendeva cadere nella trappola della lusinga del rumore pirotecnico senza contenuti che, non dissolve la notte delle coscienze libere, ma le inganna, peggio le anestetizza, le ingabbia in labirinti di echi stonati... 
Eppur Filippo Tommaso Marinetti stimava il nostro, ne coglieva lo spessore, l'ironia amara, il sarcasmo affilato; fu lui a suggerirgli come titolo per una raccolta di poesie nate dalla delusione dei drammatici eventi del 1898: “Revolverate e nuove revolverate” e a scriverne l'introduzione.

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