Nagorno Karabakh, una tregua difficile
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Regge in larga misura, il cessate il fuoco tra armeni e azeri, entrato in vigore ieri in merito al Nagorno-Karabakh, regione azera a maggioranza armena del sud Caucaso. Dopo giorni di combattimenti e oltre 70 vittime, le parti, pur accusandosi di violazioni reciproche, sono ora sotto osservazione della comunità internazionale che in un giro di incontri sta cercando di stabilizzare i termini dell’accordo. Molto ruota intorno al riconoscimento dei territori di frontiera: “obiettivo difficilissimo da raggiungere”, spiega al microfono di Gabriella Ceraso, Marco Di Liddo, analista del Ce.S.I. ( Centro studi internazionali):
R. – Tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno-Karabakh, dal 1994 vige un accordo di cessate-il-fuoco, anche se non esiste un reale progetto, con contenuti politici, che cerchi di risolvere la situazione. Il punto cruciale è che l’Azerbaigian non accetterà mai una decurtazione di quello che ritiene essere il proprio territorio; da parte sua, l’Armenia – pur non riconoscendo ufficialmente il Nagorno-Karabakh per ragioni di buon senso diplomatico – spinge affinché il Nagorno-Karabakh possa “ricongiungersi” con la madre patria, ma respinge in qualche modo anche l’ipotesi di una grande autonomia all’interno dell’Azerbaigian, perché in passato purtroppo l’Azerbaigian ha dimostrato di usare il pugno di ferro nei confronti di realtà subalterne.
D. – Allora in nome di che cosa si dice che le due parti si starebbero accordando?
R. – Si staranno accordando, probabilmente, in questo momento, per abbassare le tensioni, per evitare cioè che ci possa essere una escalation e questo perché la guerra ha un costo economico molto alto: siccome i due Paesi hanno difficoltà economiche, probabilmente temono quelli che possono essere gli effetti, qualora la campagna militare non vada come previsto o come auspicato. Si tratta di un mosaico veramente molto intricato. L’unico elemento stabilizzante, offerto dalla diplomazia russa, che ha interesse affinché il Caucaso sia pacificato, è che il conflitto rimanga almeno congelato.
D. – L’azione del gruppo di Minsk dell’Osce. In queste ore ci sono una serie di riunioni: può avere un ruolo diverso rispetto al passato?
R. – Il grande problema è che per quanto il gruppo di Minsk, dell’Osce, lavori davvero con buona volontà, l’Azerbaigian sostiene che il gruppo di Minsk sia eccessivamente pro-armeno, in quanto i Paesi che lo co-presiedono - cioè Russa, Francia e Stati Uniti - hanno al loro interno delle grandi diaspore armene, che quindi permettono loro di fare lobby politica. In realtà, l’Azerbaigian è un Paese che tradizionalmente in politica estera è molto unilaterale ed ha una postura alquanto assertiva in questo momento. Se aggiungiamo che negli ultimi anni ha potuto ricostituire completamente l’apparato militare, capiamo che il mix è esplosivo. Non dobbiamo mai dimenticare che, nel ’94, gli azeri la guerra l’hanno persa con l’Armenia: quindi c’è anche un senso di revanche storica che cova all’interno dell’élite di potere.
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