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Il Salento Metafisico di Carmelo Bene [di Francesca R. Recchia Luciani]


dal sito http://www.santippe.it/salento-metafisico/

Il SALENTO METAFISICO DI CARMELO BENE, saggio di Lorena Liberatore (edito da F.A.L. Vision), scopre sin dal titolo le proprie carte: la sua posta in gioco è la peculiare relazione beniana tra radicamento e sradicamento, tra l’avere i piedi ben piantati nella terra-madre e allo stesso tempo le ali spiegate e pronte per prendere il volo, proprio come accade ad uno degli alter ego di Bene, San Giuseppe Desa da Copertino, il santo volante, l’autore di “voli pindarici, ed estatici”, come li definisce Carlo Coppola nella sua densa introduzione al volume.
Il ritratto è quello di un Bene che resta caparbiamente ancorato alla sua origine, alle sue radici, col riferimento costante a quel luogo/non-luogo dal quale ci si è allontanati e al quale si torna continuamente, sino alla fine, luogo dell’inizio e agognato luogo della fine.
L’immagine che consegna al lettore Lorena Liberatore è quella di un artista eclettico e geniale di cui si attraversa con passione l’esistenza e l’opera, pur nella consapevolezza che quella incarnata da Carmelo Bene è un’eccedenza, il suo agire attoriale e autoriale un eccesso che non si lascia catturare da schemi e griglie categoriali, un unicum il suo lavoro e la sua personalità che sfuggono e rifuggono alle classificazioni perché tutte le oltrepassano. Eppure questo saggio riesce ad afferrare a sprazzi un Bene “vero”, nella sua inespugnabile complessità. A partire proprio dal complicato rapporto con le sue origini, con le radici, col quel Sud metafisico che condivide la sua antropologia essenziale col Sud magico di Ernesto De Martino, rivelandosi però in un ribaltamento di prospettiva: infatti, l’esser-ci (il Dasein heideggeriano) che vi si manifesta, per il primo, lo fa attraverso l’assenza, per il secondo, attraverso la presenza, in un caso ricostruendo il paese come paesaggio familiare, nell’altro denunciando il rischio dello spaesamento. E in entrambi si affaccia già il rituale, tanto magico quanto teatrale, della ripetizione, quel ritmo che Deleuze riconosce nel volume dialogicoSovrapposizioni come il tratto caratteristico del lavoro teatrale di Bene, che dalla riproduzione creativa del testo e del gesto fa emergere la differenza.
In quella ritmica altalenante tra questi due poli in cui la ripetizione s’impone come “il riproporsi di una variazione” che conserva e salvaguarda la singolarità, l’atto ripetitivo si palesa come autentica trasgressione. La ripetizione, nietzscheanamente intesa da Deleuze come “eterno ritorno dell’uguale”, è tuttavia sempre – sottolinea Lorena Liberatore nel suo approfondimento su Bene e la filosofia – un ripetersi e rinnovarsi, come già vecchio e tuttavia nuovo, come già visto e però inedito, come persistenza e insieme cambiamento. È nello iato tra questi opposti, nell’intervallo tra l’uno e l’altro che si dà la differenza, valore aggiunto alla rappresentazione, invenzione nella ripetitività, fatto creativo nella riproduzione infedele. In tal senso, per esempio, il rapporto con i classici, l’assidua frequentazione delle letterature, è mediato dal paradigma dellasottrazione o dell’amputazione, riduzione fenomenologica del testo e dei personaggi per giungere a quel residuo di coscienza pura che è l’azione teatrale.
Il teatro di Carmelo Bene giunge così al grado di fusione artistica, allo stadio del calor bianco creativo nel suo non essere, come scrive Deleuze, “anti-teatro”, ma piuttosto  – diremo – meta-teatro, un teatro metafisico che nella sua ricerca dell’essenza si fa teatro ontologico o ontologia teatrale, anche grazie al “depensamento”: tecnica impura che consente di annullare la “coscienza ragionativa” al fine di compiere un’altra riduzione fenomenologica per giungere ancora alla coscienza pura, a una sorta di Lebenswelt teatrale/teatrante.
Così, sottolinea Lorena, anche la distinzione proposta da Derrida tralogocentrismo fonocentrismo viene tradotta da Carmelo Bene in una prassi originale e attenta alla voce come logos parlante, vivente e presente, proprio in contrasto con la dimensione cadaverica della scrittura, rilevata proprio da Derrida, che coagula nel testo un pensiero ormai estinto, già in stato di putrefazione proprio perché bloccato nel suo sviluppo, nella sua dinamica evolutiva che s’incarna solo nella phoné. E d’altra parta la voce per Carmelo Bene fu strumento straordinario di creazione artistica, luogo di sperimentazione del superamento della relazione non univoca tra il vocalico e il semantico, tra l’emissione sonora delle parole e il significato attribuito loro.
Da ultimo Lorena Liberatore s’interroga su un tema alquanto scabroso: la relazione beniana col sacro, senza ovviamente arrischiarsi a rispondere in via definitiva agli interrogativi che essa pone. Di certo, possiamo dire, quello di Bene è stato uno dei rarissimi tentativi di elaborare una autentica visione artistica del mondo sub specie aeternitatis.