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Pensando Otello di Carlo Coppola

È la storia del Moro di Venezia, non il racconto di una ascesa al potere, ma il crollo delle aspirazioni politiche, sentimentali, sociali racchiuse nel significato del ‘gesto’.
 Un invito a non fidarsi dei consiglieri a volte, o troppo spesso fraudolenti, ma anche la versione imbastardita e lo sviluppo della “fabula antiqua” di Medea, condotto in epoca moderna ad un approdo speculare rispetto al modello di partenza: un altro esempio della società multietnica che si infrange per invidie, gelosie e rivalità attraverso l’esplosione di bassi istinti sopiti.

È il trionfo del conservatorismo e dei valori di piccole comunità che non sono degne di essere definite patrie, che costringono prima Medea e poi il Moro a indossare ferocemente la maschera di xenos, straniero e per meglio dire estraneo, e che si vedranno ennesime vittime alla fine del secolo XIX i protagonisti nel dramma ibseniano di Casa Rosmer. Proprio la ricomposizione, e affermazione, di questa ‘maschera’ riporta ad istinti profondamente bestiali che fanno dello straniero non più un concetto di pura astrazione ma una concretizzazione del pensiero stesso del male e del pericolo. La diversità e l’estraneità diventano di per se stesse elemento di colpa, che dà poi inizio alla brutalità e non è un caso che il termine  diviene dopo il V sec. A. C. sinonimo di gente che commette azioni turpi ed empie.
Anche il tema specifico del colore di pelle del Moro, è presente nella quasi coeva evoluzione del più maturo barocco europeo dove Gian Battista rappresentava belle schiave nere e questo solo effetto doveva essere certamente molto esotico. A dire il vero però che Otello fosse nero come viene rappresentato dalle sue prime apparizioni on the stage non c’è nessuna prova, soprattutto se pensiamo che il termine Moro poteva indicare anche il colore di pelle degli Arabi. Eppure lo sviluppo apportato dalla fabula di Otello al panorama culturale è certamente notevole, in quanto un Moro diventa addirittura un importante funzionario della Serenissima Repubblica, soprattutto se pensiamo che per avere la certezza storica di un atto di questo tipo si dovrà aspettare la fine degli anni ’50 del secolo appena trascorso, e l’opera del Patriarca di Venezia Roncalli, poi Papa col nome di Giovanni XXIII.

Mentre tutti i passaggi dello sviluppo asseverativo sono presenti in Medea, in Otello si saltano molti dei sintagmi narrativi perché il tipo di pubblico cambia. Se il dramma euripideo era assolutamente popolare e doveva necessariamente spiegare una serie di dati e tappe, partendo da un antefatto e finendo con la condanna il più possibile plateale e sociale della turpe maga-straniera, così non poteva essere per l’opera dello Shakespeare. Il target shakespiriano si presentava, infatti, meno vasto, e certo più elitario. 

Il fine drammatico doveva coincidere con quello pedagogico oltre che con l’aspetto morale. Rispetto al popolo ateniese spettatore delle tragedie negli anfiteatri, ai londinesi del Globe si richiedeva un maggiore sforzo critico che riguardasse le piccole cose: the movements on the stage dovevano essere assai pieni di significato ed al pubblico spettava il compito di cogliere gli aspetti di sincerità ed insincerità dei personaggi, dei fazzoletti ingannatori ed anche le variazioni e gli esiti interni ai vari players. Insomma lo spettatore inglese era costretto ad una attenzione sensoriale ma soprattutto a cogliere le varie realtà psicologiche, cosa che nel pubblico ateniese era espressamente dichiarata dalle sottolineature del coro.

Né contro Iago né contro Otello si schiera l’autore dipinge scene con poche pennellate alla maniera di Guido Reni lascia tutti doppiamente nel dramma con un’ipotesi aperta sulla fine di tutti tranne che di Desdemona, di cui ci pare certa la fine dalle mani del Moro. Ognuno attende la sua fine per mano del drammaturgo che fa rima con demiurgo, come in Che cosa sono le nuvole cortometraggio di P.P. Pasolini, dove l’incerta fine coincide con la certezza della reale distruzione di ogni burattino e di ogni aspettativa nella Ghenna, ovvero nella discarica, e nel nulla.