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"Giulio Andreotti e gli Armeni: Il Ricordo a Dodici Anni dalla Sua Scomparsa" di Carlo Coppola


Ջուլիո Անդրեոտտին և հայերը. հիշելով նրա մահից տասներկու տարի անց: Կառլո Կոպպոլայի հոդված. 


A dodici anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 6 maggio 2013, la figura di Giulio Andreotti continua a proiettare stagliarsi come figura di spicco nella storia politica italiana. Statista di eccezionale valore e acume, 7 volte Presidente del Consiglio, 21 volte ministro, senatore a vita, il Presidente Andreotti ha attraversato da protagonista oltre mezzo secolo di vicende repubblicane, incarnando lo spirito di ciascuna epoca. La sua proverbiale abilità di intessere relazioni diplomatica partitiche ed extrapolitiche, la profonda conoscenza dei meccanismi della gestione della cosa pubblica da lui trasformati in arte della diplomazia e la sua capacità di solcare le acque agitate della politica nazione ed internazionale ebbero a renderlo un interlocutore imprescindibile.

In questo anniversario odierno, è opportuno esplorare un aspetto forse meno scandagliato della sua vasta esperienza politica: il rapporto, diretto o indiretto, con la questione armena e con il popolo armeno, una delle più antiche civiltà cristiane, segnata da una storia di sofferenze e da una diaspora globale. L'Italia, e Roma in particolare, ha da secoli legami significativi con gli armeni, basti pensare alla storica presenza della comunità mechitarista sull'isola di San Lazzaro a Venezia o al Pontificio Collegio Armeno nella capitale. È quindi plausibile interrogarsi su come un politico della statura e della sensibilità cattolica di Andreotti si sia rapportato a questa realtà e, soprattutto, alla memoria del Metz Yeghern, il Grande Male, il genocidio armeno del 1915-1923.

Per comprendere l'approccio di Andreotti alla questione armena, è fondamentale inquadrarlo nel contesto più ampio della politica estera italiana durante i decenni in cui egli incarnò i vertici più alti dello stato, in particolare come Ministro degli Esteri (1983-1989) e come Presidente del Consiglio in diverse fasi cruciali. La politica estera italiana del dopoguerra, e specialmente durante la Guerra Fredda, fu caratterizzata da un saldo ancoraggio atlantico ed europeista, ma anche da una spiccata attenzione verso il Mediterraneo e il Medio Oriente, aree di tradizionale interesse strategico ed economico per l'Italia.

Andreotti fu un maestro del "multilateralismo pragmatico". La sua azione diplomatica mirava a tessere relazioni, a mediare conflitti, a promuovere gli interessi nazionali italiani mantenendo un equilibrio spesso delicato tra alleanze consolidate (NATO, CEE/UE) e l'esigenza di dialogare con tutti gli attori regionali. In questo scacchiere, la Turchia rappresentava un tassello fondamentale: membro della NATO sin dal 1952, baluardo strategico sul fianco sud-orientale dell'Alleanza durante la contrapposizione con il blocco sovietico, e partner economico di rilievo.

Questa centralità della Turchia nelle dinamiche geopolitiche e di sicurezza dell'epoca ha inevitabilmente influenzato l'atteggiamento dei governi occidentali, inclusi quelli italiani guidati o partecipati da Andreotti, nei confronti del riconoscimento ufficiale del genocidio armeno. Per decenni, la Turchia ha negato con veemenza la natura genocidaria dei massacri, esercitando forti pressioni diplomatiche ed economiche per evitare, e porre fuori da qualunque agenda politica, qualsivoglia presa di posizione internazionale che utilizzassero tale termine.

Nonostante la sua profonda fede cattolica e la sua vicinanza agli ambienti vaticani – che nel corso degli anni hanno mostrato una crescente sensibilità verso la tragedia armena, culminata con le chiare prese di posizione di Papa Giovanni Paolo II e, più tardi, di Papa Francesco – è difficile rintracciare dichiarazioni pubbliche esplicite di Giulio Andreotti sul genocidio armeno durante i suoi mandati governativi. Questo non significa necessariamente disinteresse o insensibilità, quanto piuttosto una probabile adesione a quella Realpolitik che spesso caratterizzò il suo agire.

Il Presidente Andreotti era noto per la sua cautela, per la sua capacità di soppesare ogni parola e per la sua preferenza per i canali diplomatici riservati rispetto alle esternazioni clamorose. È plausibile che, nel bilanciamento degli interessi, la stabilità delle relazioni con un alleato NATO come la Turchia e la tutela degli interessi economici italiani abbiano avuto un peso preponderante nelle decisioni ufficiali di politica estera. In quegli anni, il tema del genocidio armeno non aveva ancora raggiunto, nel dibattito pubblico e parlamentare italiano, quella centralità che avrebbe acquisito nei decenni successivi, grazie anche all'instancabile lavoro delle comunità armene della diaspora e a una maggiore consapevolezza storiografica.

Tuttavia, sarebbe riduttivo limitare l'analisi alla sola assenza di riconoscimenti formali. Andreotti, uomo di profonda cultura e attento osservatore delle dinamiche storiche, storiografiche e religiose, non poteva ignorare la portata della tragedia armena. Più volte ebbe contatti diretti con figure determinanti come il Cardinale Agagianian, armeno, Patriarca di Cilicia degli Armeni e personalità di spicco nella Curia Romana.

È possibile ipotizzare che, pur senza atti formali dirompenti, Andreotti abbia favorito o, almeno non ostacolato, iniziative di carattere culturale o umanitario a sostegno della comunità armena in Italia o nel mantenimento dei legami storici. La sua politica, spesso descritta come "democristiana" nel senso più puro del termine, tendeva a includere e a non esacerbare le tensioni, cercando sempre soluzioni di compromesso.

È importante notare come la posizione italiana sul genocidio armeno sia evoluta significativamente negli anni successivi al periodo di massima influenza politica di Andreotti. Nel 2000, la Camera dei Deputati approvò una mozione che riconosceva il carattere genocidario degli eventi del 1915, un passo importante che aprì la strada a ulteriori prese di coscienza. Più recentemente, nel 2019, la Camera ha approvato una nuova mozione che impegna il governo a riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale.

Questi sviluppi sono avvenuti in un contesto geopolitico mutato, con una Turchia percepita in modo diverso e una maggiore libertà d'azione per molti paesi occidentali nel trattare temi storici sensibili. Andreotti, scomparso nel 2013, non ha assistito a queste ultime evoluzioni, ma la sua lunga carriera ha coperto il periodo in cui le basi per una maggiore consapevolezza venivano lentamente gettate, seppur in sordina.

Si potrebbe argomentare che la prudenza andreottiana, se da un lato può apparire come una mancata presa di posizione coraggiosa agli occhi di chi da sempre chiede giustizia e riconoscimento per il Metz Yeghern, dall'altro rifletteva le complesse costrizioni di un'epoca in cui la stabilità degli equilibri internazionali era considerata prioritaria. La sua attenzione alle comunità cattoliche nel mondo, inclusa quella armena, potrebbe essersi manifestata attraverso canali meno visibili della politica estera ufficiale.

Inoltre, non si può escludere che Andreotti, nella sua veste di senatore a vita e di osservatore acuto anche dopo il ritiro dalla politica attiva, abbia seguito con interesse il crescente dibattito sul genocidio armeno e le progressive prese di posizione, inclusa quella del Parlamento Europeo che già nel 1987 aveva definito gli eventi come genocidio.

La relazione tra Giulio Andreotti e la questione armena, dunque, si configura più come un non detto, un silenzio strategico o una serie di azioni discrete, piuttosto che come un impegno pubblico e manifesto. Questo si inserisce coerentemente nel suo stile politico, dove il pragmatismo e la tutela degli interessi nazionali contingenti spesso prevalevano su spinte ideali o puramente morali, almeno nella sfera pubblica.

Oggi, a dodici anni dalla sua morte, mentre l'Italia ha compiuto passi significativi verso un pieno riconoscimento della verità storica sul genocidio armeno, la figura di Andreotti ci ricorda la complessità del governare, il peso delle alleanze e le difficoltà nel conciliare la Realpolitik con il "dovere della memoria". La sua eredità, anche su questo specifico tema, rimane aperta all'interpretazione e allo studio, invitandoci a riflettere non solo sulle sue azioni o omissioni, ma anche sul contesto storico e politico in cui si trovò ad operare.

Forse, nel suo archivio sterminato e ancora non del tutto esplorato, o nelle pieghe della sua fitta rete di contatti, potrebbero un giorno emergere dettagli capaci di illuminare ulteriormente questo specifico aspetto del suo poliedrico operato. Fino ad allora, l'analisi si basa sulla sua azione pubblica e sulle priorità manifeste della sua politica estera, che hanno privilegiato un approccio cauto e attento agli equilibri con la Turchia.

In conclusione, il dodicesimo anniversario della scomparsa di Giulio Andreotti offre l'occasione per una riflessione più ampia sul rapporto tra politica, storia e memoria. La questione armena, con la sua carica di dolore e la sua perdurante richiesta di riconoscimento, interroga le coscienze e le scelte dei leader politici di ogni tempo. Andreotti, uomo del suo tempo e politico di razza, ha navigato queste acque con la sua inconfondibile cifra stilistica, lasciando ai posteri il compito di interpretare appieno le implicazioni del suo lungo e influente passaggio sulla scena italiana e internazionale. Il silenzio, a volte, può essere tanto eloquente quanto le parole, specialmente nella complessa grammatica del potere che Andreotti conosceva così a fondo. E forse, proprio in quel silenzio si cela una comprensione della tragedia armena più profonda di quanto le cronache ufficiali abbiano finora registrato, una comprensione tuttavia subordinata alle ferree leggi della ragion di Stato che hanno guidato gran parte del suo agire politico.