"Il professor Ernesto" racconto Carlo Coppola
Il professor Ernesto
Aveva deciso di domandare di più su di sé, al di là di astratti tentativi di approdare a qualcosa di certo che fosse lontano dal solito o da ciò che poteva scorgere dalla sua finestra.
Non vedeva il mare ormai da anni, e di voglia di lottare per vederlo ne aveva accumulata sempre meno nel corso del tempo. Eppure ogni mattina quando si alzava sapeva che la sua missione sarebbe stata di andare verso il mare, movendo da quella situazione così strana in cui si trovava. Aveva bisogno di sentire la sabbia nelle scarpe, ed imprecare, se non sarebbe riuscito a mettere passi agilmente.
Poi ogni sera quando tornava a casa sempre più stanco s’immergeva nella poltrona e, accesa la televisione, nei dettami di una società che progredisce da sé, e per sé soltanto. Aspettava mezzanotte tutte le sere, perché ogni sera era l’ultima dell’anno ed egli avrebbe potuto avere 30 - 40 - 50 anni, forse più vecchio ma difficilmente più giovane.
La sua faccia era sempre quella, non passava; aveva tre abiti nell’armadio, tre cravatte, tre paia di scarpe. Non era mai davvero contento o scontento di nulla, né delle condizioni meteorologiche, né della politica, né per la squadra di calcio, anche perché non seguiva più nessuno sport dacché intorno ai diciott’anni si era fratturato la caviglia sinistra giocando una memorabile partita di pallone.
Almeno così si era convinto, e ricordava, ma in realtà aveva solo messo un piede in fallo ed era inciampato, malamente, attraversando la strada, di ritorno da un’accesa lite con l’unica donna che avesse mai amato.
Una mattina, dopo tanto tempo, decise di prendersi una pausa ed andò sul mare, o meglio fu il mare a venire da lui.
Poi ogni sera quando tornava a casa sempre più stanco s’immergeva nella poltrona e, accesa la televisione, nei dettami di una società che progredisce da sé, e per sé soltanto. Aspettava mezzanotte tutte le sere, perché ogni sera era l’ultima dell’anno ed egli avrebbe potuto avere 30 - 40 - 50 anni, forse più vecchio ma difficilmente più giovane.
La sua faccia era sempre quella, non passava; aveva tre abiti nell’armadio, tre cravatte, tre paia di scarpe. Non era mai davvero contento o scontento di nulla, né delle condizioni meteorologiche, né della politica, né per la squadra di calcio, anche perché non seguiva più nessuno sport dacché intorno ai diciott’anni si era fratturato la caviglia sinistra giocando una memorabile partita di pallone.
Almeno così si era convinto, e ricordava, ma in realtà aveva solo messo un piede in fallo ed era inciampato, malamente, attraversando la strada, di ritorno da un’accesa lite con l’unica donna che avesse mai amato.
Una mattina, dopo tanto tempo, decise di prendersi una pausa ed andò sul mare, o meglio fu il mare a venire da lui.
Un vento strano dal profumo di gelsomino e violetta lo inebriò non appena uscito dal portone di casa. Subito si guardò intorno per vedere se ci fosse qualcuno accanto a lui con quell’aroma o, magari fosse un fenomeno mistico, indicante una tardiva vocazione religiosa, di cui da anni andava cercando invano i segni. Non appena si fu girato, trovò dietro di sé la ragazza che da pochi mesi abitava al terzo piano, e che con fare sbarazzino nonostante andasse ormai per i trenta, lo salutò con un largo sorriso ed un buon giorno professore. Come ogni giorno la sua piccola valigia di pelle graffiata era nella mano sinistra, ed il cappello a falde strette nella destra.
Fece per metterlo in testa ed il vento iniziò a tirare da tutte le parti, gli sembrò meglio così ed in pochi minuti si trovò davanti al mare. Cercò il molo dove attraccavano le navi, con l’intento di evitare la massa di gente che si sarebbe accalcata. Andò dall’altro lato del porto dove ricordava di aver visto certe barche ormai ridotte a rottami, ma si rese conto di non voler ricordare.
Ogni volta quando vedeva per strada qualcuno dei suoi vecchi conoscenti, con un rapido cenno simulava una fretta irrefrenabile voltando l’angolo ancor più presto, per non impazzire.
Il professor Ernesto aveva intorno e dentro di sé, tanti più fantasmi di quanti egli stesso ne potesse contare.
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