Il Carro dei Cadaveri di Daniel Varoujan
passa un carro cigolando.
Un cavallo sauro lo tira, dietro
cammina un soldato ubriaco.
È la bara dei massacrati, che va
al cimitero degli Armeni.
Il sole al tramonto distende
sul carro una sindone d’oro.
Il cavallo è magro: trascina a stento
il raccolto dei suoi padroni crudeli.
Con le orecchie pendenti, sembra
riflettere intensamente a quanti
secoli servono per arrivare all’ultimo
fienile dei santi mietuti…
E sui muri intorno la sua coda pendente
spruzza sempre, sempre sangue.
E ancora sangue continua a sgorgare
dai cerchi delle ruote,
come se il carro trasportasse rose, come se fosse
dell’aurora il carro di fuoco.
Sono uno sull’altro i cadaveri, il figlio
nei riccioli della madre avvolto.
Uno ha ficcato l’intero pugno
nella calda ferita aperta dell’altro.
E un vecchio con la mandibola in frantumi
fissa gli occhi nel cielo,
dove la maledizione e una preghiera
si mescolano alla nera vendetta.
L’intestino uscito fuori di un altro
penzola giù dal carro:
un cane da dietro l’afferra
e si dedica a divorarlo.
Non hanno più forma né testa: portano
ferite di mille armi.
Il loro corpo è già fratello alla terra:
ecco, vanno al cimitero.
Su di loro nessuno viene a piangere
o a dare l’estremo saluto:
nel silenzio della città solo l’odore del sangue
va attorno con lo zefiro.
Ma nel buio di finestra in finestra
ecco, candele che si accendono:
sono le nonne che pregano di nascosto
sulla bara rossa.
E allora su un balcone
esce una bella vergine,
e piangendo lancia un pugno di rose
sul carro che passa.
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